Cenni storiciAll’inizio del Cinquecento, quando scese in Italia per vantare diritti sul regno di Napoli, Luigi XII di Francia credeva di doversi trattenere molto in Campania e si portò dietro alcuni vitigni di Champagne che vennero impiantati nel Casertano e precisamente nel territorio di Aversa. Le mire del francese sul Napoletano andarono presto in fumo, mentre i vitigni espressero un vinello bianco carta con riflessi smeraldini, povero di alcool, acidulo e perciò subito chiamato Asprinio. Pur nella sua modestia, questo vino riesce gradevole sia con il pesce sia quale dissetante estivo.
Vini bianchi della CampagnaAccanto all’umile Asprinio la Campania produce bianchi prestigiosi (il vin di Capri, il Lacrima Christi, il Greco di Tufo, il Piano di Avellino, l’Ischia, il Furore Divina Costiera, il Ravello) che nascono dalla consociazione di piii uve, con la preponderanza della greco, della fiano e della coda di volpe. L’ammostamento delle stesse – sia pure in proporzioni di volta in volta variate – provoca un gioco di profumi che talora s’incentra sull’aromatico odore della ginestra, talaltra su quello dei fiori di sambuco. Il vin di Capri gode larga fama in Italia e all’estero. Le sue bottiglie « si sturano a migliaia, a milioni – scrive Gino Doria – tra Manhattan e lo Spitzberg Capetown e la Terra del Fuoco, nei rifugi alpini e sulle navi in crociera . . . E ognuno si domanda: ma come può una cosi piccola isola produrre e distribuire tale fiumana di vino? ». Anche a ritenere un tantino esagerati il numero delle bottiglie e la loro distribuzione geografica, l’inquietudine promossa dall’interrogativo rimane. Per dovere di obiettività dobbiamo aggiungere che il bianco di Sorrento ha le stesse caratteristiche organolettiche del Capri perché il terreno di ambo le zone presenta il medesimo impasto; difatti l’isola nella notte dei tempi si staccò dalla penisola sorrentina.
Lacrima ChristiFamoso forse un po’ meno del Capri è il Lacrima Christi dei vigneti vesuviani di Torre del Greco, Ottaviano ed Ercolano. Da pesce, giallo paglierino, profumo di ginestra e sambuco, dodici gradi, fresco, diventa migliore con l’invecchiamento. Per spiegarne il singolare nome, gente dalla fantasia sbrigliata ha creato addirittura delle leggende. Una volta i vigneti della suddetta falda vesuviana appartenevano alla Compagnia di Gesu e producevano dell’ottimo Aglianico. Allorché compratori e consumatori ebbero necessità di dargli un nome distintivo, spontanea o quasi sorse la locuzione Lacrima Christi, Lacrima secondo nome napoletano di Aglianico e Christi dalla sigla della Compagnia di Gesu. L’uva aglianico fa da piattaforma, talvolta insieme alla palombina, a molti rossi campani: al Capri, al Lacrima Christi, all’Ischia, al Ravello, del tipo rosso, al Taurasi, al Vitulano, al Pannarano, al Solopaca, al Vesuvio, al Gragnano, al Giovi, al Sele, al Corbara, al Partenio. La miscela delle due uve produce un vino più morbido e gli dà un grazioso sentore di viola. Popolarissimo a Napoli è il Gragnano. « Onesto – lo definisce il già citato Daria – corposo, maschio, che mette fuoco nelle vene senza bruciare l’apparato digerente, che rende animosi e canori, che quando cade sulla tovaglia forma una vera e spessa macchia, non una pallida indefinibile chiazza ».
Confronto tra vecchio e modernoEd eccoci al Falerno che ai tempi dell’antica Roma riscosse gli elogi di Cicerone, Plinio, Strabone, Properzio, Orazio. L’odierno proviene dal triangolo formato da Sessa Aurunca, Formia e Mondragone. Del vecchio conosciamo le qualifiche di forte, indomito, severo, nettareo, austero, fermissimo attribuitegli da personaggi dell’epoca. Dell’attuale sappiamo tutto: la tinta ramata, il gusto asciutto velato di cioccolato, il profumo di viola, il tenore alcoolico superiore ai tredici gradi. Può capitare a qualche lettore di chiedere del Falerno e di vedersi servire un vino bianco; ebbene, nella collana enologica italiana c’è pure un Falerno bianco leggermente dolce da giovane, secco da invecchiato. Ischia bianco.
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